Zoom 25 Febbraio 2021

Colestasi gravidica, numeri e fattori di rischio

È una patologia del fegato che colpisce le donne nel corso della gravidanza e che, spesso, le porta a dover anticipare il parto per evitare conseguenze sul nascituro. Stiamo parlando della colestasi gravidica.

Il sintomo generalmente più diffuso è quello di un prurito molto intenso che parte dagli arti superiori e inferiori per poi diffondersi sul viso e sul resto del corpo. A questo si aggiunge un colore più scuro delle urine, una lieve forma di ittero nelle sclere degli occhi (di tanto in tanto sulla pelle) e presenza di grassi non digeriti nelle feci con di colore grigio chiaro. In più nausea, stanchezza e inappetenza. Qualora non venisse trattata in maniera adeguata, la colestasi può avere conseguenze serie. Valori alterati degli acidi biliari o delle transaminasi epatiche, insieme a quelli di aspartato aminostransferasi e alanina aminotransferasi, sono i segnali che, dagli accertamenti clinici, fanno capire che ci si trova di fronte a questa patologia.

Seppur la sua incidenza sulla popolazione femminile sia piuttosto bassa (i casi riguardano l’1-2% delle donne in gravidanza), i fattori scatenati sono molteplici. Si passa da un accumulo di sali biliari, che vanno a riversarsi nel circolo ematico e nei tessuti, generando irritazioni alle terminazione nervose periferiche e il conseguente prurito, fino a problematiche di carattere ormonale: quest’ultimo aspetto in genere si manifesta negli ultimi tre mesi di gestazione a causa dell’innalzamento di estrogeni e progesterone. Quando la causa è di questo tipo, una volta effettuato il parto e ripristinati i valori ormonali, la colestasi sparisce. A essere maggiormente soggette sono le donne con gravidanze gemellari, a causa delle difficoltà che la quantità superiore di estrogeni genera sul fegato, ma spesso possono entrare in gioco anche problematiche di carattere genetico, ambientale o alimentare.

I Paesi del Nord Europa, scandinavi soprattutto, Bolivia e Cile sono quelli in cui la colestasi si manifesta con maggiore frequenza (circa il 2%), mentre i casi oscillano tra lo 0,5% e l’1,5% nelle altre nazioni europee e del Nord America. Alcuni studi avrebbero mostrato, oltre a una variazione in base all’etnia di appartenenza e ai territori in cui si vive, che anche la mancanza di selenio è tra i motivi per cui le donne in gravidanza sviluppano questa patologia. È comunque importante, durante la gestazione, effettuare ciclicamente una serie di esami clinici al fine di monitorare costantemente l’apparato urinario, con i valori di bilirubina e transaminasi: gli acidi biliari, infatti, svolgono un ruolo fondamentale nel depurare l’organismo contribuendo a eliminare il colesterolo e a rendere solubili i grassi e le vitamine liposolubili.

Diversa è la situazione per quanto riguarda il feto. Gli effetti sul nascituro, infatti, rischiano di essere gravi, passando dalla sofferenza fetale, all’asfissia neonatale, fino alla morte endouterina o neonatale a causa della tossicità degli acidi biliari. Ecco perché dopo aver ricevuto una diagnosi di colestasi gravidica è importante iniziare subito una terapia farmacologica, generalmente a base di acido ursodesossicolico, per monitorare la patologia e consentire poi al medico di anticipare il parto alla 37esima settimana. È fondamentale, nel periodo in cui si convive con questa forma, seguire una dieta attenta e leggera, priva di cibi grassi e fritture, e più volta a consumare cibi poco elaborati, cotti a vapore, alla griglia o lessi, carni magre e pesce, nonché frutta e verdura ogni giorno e bere acqua naturale.