Focus 14 Novembre 2019

Alta specialità negli ospedali per tutelare i pazienti
Giuseppe Remuzzi “primario emerito” a Bergamo

di Emiliano Magistri

Garantire il più alto livello di specialità all’interno di una struttura sanitaria è sempre stato il suo obiettivo. Fare di un ospedale, il suo ospedale, il migliore, è il modo più efficace per diffondere il messaggio di una realtà efficiente e rispondente alle necessità dei pazienti.
Anche, se non soprattutto per questo, il professor Giuseppe Remuzzi, ematologo e nefrologo, direttore dell’istituto di ricerca farmacologica “Mario Negri” di Milano, venerdì 15 novembre è stato insignito del titolo di “primario emerito” nell’ospedale “Papa Giovanni XIII” di Bergamo. Nel giorno in cui ricade il 20esimo anniversario del primo trapianto di fegato su un adulto. Nel suo ospedale, una struttura all’avanguardia per i trapianti di polmone, cuore, fegato e intestino sia sugli adulti che sui bambini. Ma non solo.
A Remuzzi, lo scorso 28 settembre, a Firenze, è stato conferito anche un altro riconoscimento: la 4ª John Gorman Lecture, la conferenza internazionale in Medicina Trasfusionale intitolata al Professor John Gorman, pioniere della profilassi Anti-D, in occasione del lancio ufficiale di WIRhE, la onlus nata a New York su iniziativa della Columbia University, e il supporto di alcune società del settore farmaceutico tra cui l’italiana Kedrion.

Professore, cosa significa, in una data come questa, ricevere un riconoscimento simile?
“È un qualcosa di molto importante per me. La conferma di come il mio lavoro in questa struttura, per tanti anni, sia stato capito e apprezzato. Un motivo di orgoglio”.

L’ospedale di Bergamo è, a oggi, una delle strutture d’eccellenza nel panorama sanitario italiano e non solo. Gran parte del merito deriva anche dalle sue proposte.
“Diciamo che in Italia è opinione diffusa il fatto che se si chiama qualcuno a lavorare in un posto lo si faccia perché è raccomandato. Qui stiamo cercando, invece, di fare esattamente il contrario. Vogliamo circondarci dei migliori medici in ogni specialità per garantire ai pazienti competenza, sicurezza e assistenza di altissimo livello. Sono sempre stato convinto che non si possa essere bravi da soli, ma circondandosi di un team capace”.

Ma c’è anche un altro uomo dietro tutto questo…
“Quando sono arrivato a Bergamo il direttore generale era Franco Provera, uno dei primi chirurghi in Italia a effettuare il trapianto di cuore. Il nostro progetto, quando sono stato capo dipartimento di Immunologia e clinica del trapianto, era quello di realizzare una terapia anti-rigetto, un modo per contribuire a far crescere questo movimento. A oggi riusciamo a fare interventi grazie a reni prelevati da donatori ultra 80enni”.

Una crescita che ha riguardato anche i pazienti più piccoli, grazie ad una “partnership” d’eccezione.
“Sicuramente la collaborazione con l’istituto Mario Negri ha contribuito attivamente al consolidamento dell’ospedale di Bergamo come polo d’eccellenza anche per quanto riguarda la chirurgia infantile. Circa il 70% dei trapianti di fegato sui bambini viene effettuato qui da noi, e credo che sia un risultato non da poco”.

Nel corso degli Stati generali della trapiantologia italiana, che si sono ritrovati a Roma la scorsa settimana, il Cnt ha fatto il punto sulla situazione che vive il nostro Paese: al di là dei numeri, positivi, lei che fotografia fa di questo tema?
“A livello di chirurghi e compatibilità immunologica, l’Italia vive una condizione ottima. Tuttavia andiamo molto male per quel che riguarda i potenziali donatori. Nel Nord abbiamo circa il 20% dei rifiuti all’espianto degli organi, per arrivare addirittura al 40% nelle regioni del Sud. Tutto questo è assurdo e dimostra come il lavoro di coordinamento dei trapianti vada necessariamente rivisto. I rifiuti a donare devono essere dello 0%, altrimenti non si va da nessuna parte”.

Cosa bisognerebbe migliorare o, eventualmente, fare se già non è stato fatto, per invertire questa tendenza?
“Intanto è necessario coinvolgere il personale sanitario come gli infermieri nelle iniziative di sensibilizzazione delle persone, visto che a oggi è una parte molto mal gestita. È più probabile che si crei un’empatia particolare tra un infermiere e i parenti di un paziente deceduto, piuttosto che con un primario o un altro specialista che rischia di poter dedicare loro troppo poco tempo. Se migliorassimo questo aspetto potremmo garantire un terzo dei trapianti in più. E poi è necessario che i grandi mezzi di comunicazione si occupino seriamente di questo tema per far capire alla società quanto importante sia dire sì all’espianto”.

Quanto incide in questo la carenza di giovani medici e le nostre strutture sanitarie spesso fatiscenti?
“Incide moltissimo. Un ospedale curato, organizzato e con personale efficiente e disponibile a rispondere alle necessità, spesso drammatiche, di migliaia di persone, permette a pazienti e familiari di acquisire fiducia sempre maggiore e, in quest’ottica, accrescere la possibilità che alla richiesta di donazione degli organi venga risposto sì. E poi è fondamentale iniziare a far lavorare subito i medici giovani che, rispetto ad anni fa, oggi sono straordinari e arricchiti di competenze, soprattutto sulle strumentazioni informatiche, che garantirebbero crescita e formazione anche a chi sta per andare in pensione e farebbe loro da tutor”.

In Italia è possibile dare il consenso alla donazione degli organi al momento del rilascio o del rinnovo della carta d’identità: quanto è efficace, per lei, questo meccanismo?
“È fondamentale, perché se si dovesse andare nei propri uffici anagrafici solo per dare il consenso, non lo farebbe nessuno. Diverso è invece registrare l’ok al momento del rilascio di un documento. Tuttavia a mio avviso andrebbero anche snelliti i decreti attuativi della legge attualmente in vigore, realizzando un provvedimento molto più semplice secondo il quale venga considerato donatore solo chi ha risposto sì, senza coinvolgere troppo le famiglie in questione”.